Doveva succedere. Stava per succedere. I segnali erano stati tanti negli ultimi periodi: le parole, gli infortuni, qualche back-to-back saltato, i problemi al tiro e coi compagni. Sembrava diverso, un lontano parente di quel feroce atleta che inseguiva la vittoria a tutti i costi, riempiva di anelli le sue dita e infrangeva record su record, dando ogni sera spettacolo e ai tifosi sempre un motivo per venirlo a vedere a palazzo, per mettersi le mani nei capelli e poi fischiarlo o applaudirlo.

Quest’anno, dal suo modo di giocare e dalle sue dichiarazioni, si era capito: voleva inseguire (o quantomeno provarci) quel fantasma del passato, rincorrerlo, catturarlo. Voleva che quel fantasma tornasse ad essere la sua vera ombra sul parquet. Ma quel fantasma era troppo veloce, troppo sfuggevole, aveva movenze imprevedibili, saltava, correva, disorientava tutti: insomma, era immarcabile.

Ecco, quel fantasma non si è fatto prendere: è sfuggito, spinto dall’inebriante e dolce sapore dei trionfi, lasciando dietro di sé una traccia dall’odore di sigaro (della vittoria) e champagne. Quella traccia, il 37enne da Phildelphia l’ha sentita, l’ha annusata, l’ha respirata e ha avuto l’idea di provare a catturarla, per tentare di rivivere ancora una volta sulla pelle del suo corpo, oramai martoriato dagli acciacchi, dalle operazioni e dalle botte prese in 20 anni di carriera NBA, quelle sensazioni passate.

Bryant

Ma quel fantasma e quella traccia sono volati via, disperdendosi nell’etere e trasformandosi in vividi ricordi, schiarendo le idee al nostro uomo che, all’improvviso, ha visto in maniera limpida quale era lo scenario attorno a lui e come stavano realmente le cose.

Ha provato allora a temporeggiare, a fare il vago quando glielo chiedevano, a dissimulare dicendo che era solo un cattivo momento passeggero. Il pubblico, giudice implacabile ma sempre riconoscente, però vedeva chiaramente che non era più quello di prima, che il suo fantasma, volato via purtroppo, aveva altre sembianze e altro aspetto, che il tempo stava avendo inesorabilmente la meglio sull’uomo.

Tutti, quindi, dentro di sé, avevano capito che si avvicinava il momento del… no, era troppo brutto anche da pensare, non poteva essere vero: era un cattivo pensiero, quasi un incubo, e, come tale, ogni appassionato di basket lo scacciava immediatamente via dalla propria mente. Ogni sera però, vedendolo giocare, quel presentimento riaffiorava e prendeva corpo e tutti via, di nuovo, a levarselo dalla testa.

Alla fine quell’oscuro timore è diventato realtà: Kobe Bryant, il “Black Mamba”, ha deciso di ritirarsi.

Bryant

Dopo 5 anelli di campione NBA (ottenendo per due volte il riconoscimento di miglior giocatore delle Finals), 17 partecipazioni all’All-Star Game (con 4 titoli di miglior giocatore), 1 titolo di MVP (2007-2008), 32683 punti segnati nella Lega (terzo marcatore all-time), 1 gara delle schiacciate (1997), 2 medaglie olimpiche (2008 e 2012), 1 mondiale (2007), dopo esser stato inserito per 11 volte nel primo quintetto NBA e 9 volte in quello difensivo, e dopo aver battuto una serie infinita di record per precocità, il numero 24 dei Lakers ha deciso che è arrivata l’ora di dire basta.

Già, i Lakers. Kobe ha speso tutta la sua ventennale carriera con la maglia gialloviola, diventandone una vera e propria bandiera e trasformandosi, in maniera naturale, nel più riconosciuto rappresentante e ambasciatore della franchigia nel mondo. Bryant ha riscritto praticamente quasi tutti i record della stessa: più punti segnati, più punti segnati nei Playoffs, in una stagione (quella 2005-2006), in un gara singola (contro Toronto il 22 gennaio del 2006), in una metà di gara (55 sempre nella partita contro Toronto) e in un quarto (30 per ben due volte), numero di tiri dal campo tentati e segnati, numero di tiri liberi tentati e segnati, numero di partite giocate in stagione regolare e nei Playoffs, numero di palle rubate, falli fatti, palle perse e minuti giocati sia in regular season che nei Playoffs. Insomma l’esempio più lampante di cosa significhi essere un uomo-franchigia.

Bryant

Kobe, nella sua rincorsa alla fatidica quota di 6 anelli vinti dal più grande di sempre (Michael Jordan) e nel suo spasmodico tentativo di essere il migliore, non ha mai esitato a dare spettacolo e ha cercato sempre di imporre in campo il suo stile e il suo modo di giocare.

Anche abbandonando l’attività agonistica, ma soprattutto la passione che per più di 20 anni ha occupato le sue giornate, il numero 24 ha scelto di stupire, scrivendo una lettera in cui dà direttamente del TU al basket, al Gioco che gli ha dato tantissimo, ma che negli ultimi tempi lo ha fatto anche patire parecchio. Un Gioco che, comunque, in un modo o nell’altro, possiamo certamente dire che lui ha segnato per sempre.

La lettera recita così:

Dear Basketball,
From the moment I started rolling my dad’s tube socks
And shooting imaginary Game-winning shots
In the Great Western Forum
I knew one thing was real:

I fell in love with you.
A love so deep I gave you my all —
From my mind & body
To my spirit & soul.

As a six-year-old boy
Deeply in love with you
I never saw the end of the tunnel.
I only saw myself
Running out of one.

And so I ran.
I ran up and down every court
After every loose ball for you.
You asked for my hustle
I gave you my heart
Because it came with so much more.

I played through the sweat and hurt
Not because challenge called me
But because YOU called me.
I did everything for YOU
Because that’s what you do
When someone makes you feel as
Alive as you’ve made me feel.

You gave a six-year-old boy his Laker dream
And I’ll always love you for it.
But I can’t love you obsessively for much longer.
This season is all I have left to give.
My heart can take the pounding
My mind can handle the grind
But my body knows it’s time to say goodbye.

And that’s OK.
I’m ready to let you go.
I want you to know now
So we both can savor every moment we have left together.
The good and the bad.
We have given each other
All that we have.

And we both know, no matter what I do next
I’ll always be that kid
With the rolled up socks
Garbage can in the corner
:05 seconds on the clock
Ball in my hands.
5 … 4 … 3 … 2 … 1

Love you always, Kobe

Bryant

Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale:

mi ero innamorato di te.

Un amore così profondo che ti ho dato tutto dalla mia mente al mio corpo dal mio spirito alla mia anima.

Da bambino di 6 anni profondamente innamorato di te non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno.

E quindi ho corso. Ho corso su e giù per ogni parquet dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno ti ho dato il mio cuore perché c’era tanto altro dietro.

Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida ma perché TU mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per TE perché è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire.

Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere un Laker e per questo ti amerò per sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica ma il mio corpo sa che è ora di dire addio.

E va bene. Sono pronto a lasciarti andare. E voglio che tu lo sappia così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme. I momenti buoni e quelli meno buoni.

Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati bidone della spazzatura nell’angolo 5 secondi da giocare. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1…

Ti amerò per sempre, Kobe

Bryant

Una lettera, questa, che dimostra come Bryant abbia dedicato tutto il suo tempo e tutte le sue energie, fin da piccolo, a inseguire un sogno che poi è diventato realtà, a inseguire una passione che poi è diventata (anche) un lavoro, a corteggiare un palla a spicchi che poi è diventata la sua seconda moglie. Anche se forse non lo ha lasciato intravedere molto, Kobe è sempre stato profondamente innamorato della pallacanestro. È stato, da ragazzino e poi da uomo, sempre straordinariamente felice di giocare e divertirsi, e ancora più felice di crescere e invecchiare (cestisticamente parlando) continuando a fare, con il medesimo stato d’animo, quello che più gli piaceva.

Questi sentimenti forse non sono stati sempre così evidenti, soffocati e insabbiati dalla sua cattiveria agonistica, dalla sua determinazione e dalla sua voglia di inseguire sempre la vittoria a tutti i costi e in ogni contesto, ma sicuramente sono stati il suo motore e la sua benzina ogni giorno e gli hanno permesso di arrivare fino a qui, segnando in maniera inequivocabile la storia della pallacanestro.

Ora è arrivato a un punto in cui l’amore e la passione non bastano più, perché il suo corpo non riesce più a supportarli e non è più in grado di essere quel loro esecutore meccanico e concreto sul parquet, ammirato anni addietro. Kobe sa che i giocatori vanno e vengono, mentre la pallacanestro resta. Lui ne ha scritto un bellissimo capitolo, rivoluzionandola in certi versi, e ora ha capito che è arrivato il momento di congedarsi, lasciando che altri scrivano la loro storia.

Bryant

Il tempo fa il suo corso e anche la pallacanestro, come direbbero i Queen, must go on. Kobe però è stato, è e sarà una pietra miliare di questo sport, un qualcuno da cui molti prenderanno (e hanno già preso) spunto, un modello cui ispirarsi.

Nessuno voleva credere che questo momento sarebbe arrivato. E invece il suo annuncio, seppur prevedibile, ci ha spiazzato e reso molti di noi tristi e sgomenti, tirando fuori quel sentimento di dispiacere che da un po’ di tempo stavamo covando dentro di noi, pronto a uscire quando sarebbe arrivata la fatidica decisione.

La quale, insieme alle sue parole, subito ha innescato il meccanismo dei ricordi delle imprese e delle giocate passate, portandoci immediatamente a provare gratitudine e a riconoscere la grandezza, la dedizione e lo spirito di abnegazione messo in campo e in allenamento da questo unico campione.

Bryant

Il suo ritiro chiude e segna un’era, aprendone un’altra che già si intravede luminosa e piena di talento. Il “Black Mamba”, nelle restanti 60 partite della stagione, farà il suo tour d’addio nei palazzetti di tutta America, in cui ha scritto alcune delle memorabili e più belle pagine della sua vita, della pallacanestro americana (e non) e dello sport in generale.

I tifosi, statene certi, gli tributeranno i dovuti onori, riconoscendo la resa di un avversario che magari li ha fatti soffrire, ma sicuramente anche gioire enormemente quando ha indossato la maglia di Team Usa. C’è chi lo applaudirà, chi si alzerà in piedi quando entrerà in campo, chi scriverà cartelloni per lui, chi magari piangerà, chi anche acquisterà la sua maglietta per tenere a casa con sé il simbolo di un fuoriclasse, per dire di esser stato testimone di un pezzo minuscolo della carriera grandissima di un campione immortale, per dire di aver vissuto nell’era di Kobe Bryant.

Bryant

Per dire, infine, di essere stato nella stessa nazione, nella stessa città, nella stessa Arena, a metri, a centimetri da colui che è stato, parole e occhi di Magic Johnson, “la cosa più vicina a Michael Jordan che abbiamo potuto vedere”.