È ricominciata l’NBA e, con essa, la stagione dei Chicago Bulls: squadra dalla storia indelebile che detiene un record storico e finora imbattibile: una regular season da 72 vittorie e “sole” 10 sconfitte che resterà negli annali della storia di questo sport.

Phil Jackson dice che i suoi Los Angeles Lakers del back-to-back fossero ossessionati da quel record: “Le mie squadre, negli anni dei Lakers, dicevano sempre: ‘Vogliamo battere quel record‘” – ed io rispondevo – “Anch’io vorrei, ma.. Buona fortuna!
Perché la stagione 1995-1996 fu l’apoteosi della perfezione per i Bulls; tanti fattori incredibili ed incomprensibili hanno contribuito a lasciare un segno indelebile: il riflesso della brillantezza “Jordaniana”, la rifrazione di Dennis Rodman ed un gruppo di talenti unici, ma variegati, che hanno cospirato tutti assieme affinché una squadra speciale illuminasse ogni arena d’America quell’anno.

Stiamo parlando del record assoluto della regular season NBA: quest’anno compie 20 anni senza mai essere stato nemmeno messo in discussione da nessuno.
44 partite vinte in casa, 37 per iniziare la stagione. Il margine di vittoria (12.3 punti di media a partita) fu il migliore di sempre. Jordan fu miglior realizzatore e MVP della stagione regolare, oltre che MVP delle Finals e nel primo quintetto difensivo in compagnia di Rodman e Pippen. Con quest’ultimo, condivise anche il miglior quintetto NBA, mentre Toni Kukoc venne eletto “Sesto Uomo dell’anno. Phil Jackson si aggiudicò il premio di “Coach of the Year” e Jerry Krause quello di miglior Executive. Rodman fu il miglior rimbalzista della Lega, Steve Kerr il secondo miglior tiratore da 3 punti. Non c’è nessuna squadra, neanche tuttora, che è stata dominante come i magnifici Bulls dell’annata ‘95/’96.

“Fu uno di quegli anni in cui tutto sembrava andare nella nostra direzione”, parole di Steve Kerr – attuale allenatore dei Golden State Warriors, con i quali ha vinto 67 partite nella passata stagione – “C’era un’incredibile motivazione e tutto funzionava. Michael era motivato come non mai: l’assenza dal gioco dell’anno precedente lo aveva spinto ad una convinzione portata all’estremo; partiva tutto dal campo d’allenamento e dalle modalità in cui impostava la sua testa, dal livello di competitività alle schermaglie, fino agli esercizi più banali. Ogni tipo di Big Match che avesse qualcosa di speciale faceva uscire fuori tutto il meglio di noi. Ricordo la partita di Houston: avevano Barkley, Hakeem e Drexler, difendevano il titolo ed erano il nostro alter-ego ad Ovest. Andammo in Texas e li dominammo! Ed ancora, la partita del ritorno di Magic Johnson al Forum, vinta di 15, il 4-0 ad Orlando nei Playoffs. Sembrava che maggiore fosse la sfida, meglio la squadra giocasse.

Dico alla gente che quel record non sarà mai infranto” – insiste Kerr – “È impossibile, guardate noi lo scorso anno: tutto è andato nel migliore dei modi ma ci siamo fermati a 67 vittorie. Cinque partite fanno la differenza in una stremante stagione da 82. Ai Bulls avevamo Michael Jordan: tutto sta lì, nel momento in cui avevamo un attimo di difficoltà oppure eravamo stanchissimi arrivava lui a mettere ogni cosa al suo posto. Non ci sono più giocatori così: Kobe è stato quello che ci è andato più vicino, LeBron non ha quella capacità mentale, è fenomenale – si – ma non come MJ.
Michael era così unico, talentuoso, dotato di un talento trascendente dalla realtà… Non vedo eredi!

Il tutto partì nel maggio dell’anno precedente quando i Bulls cedettero agli Orlando Magic nei Playoffs, annunciati come la nuova dinastia vincente dell’NBA, per 4-2. Horace Grant – ex-Bulls del three-peat – giocò una grande serie, mentre Nick Anderson derise Jordan che indossava per la prima volta la canotta 45 in Gara 1 dopo la sua breve parentesi nel baseball. Michael, così, re-indossò la 23 nelle successive partite, beccandosi anche una salata multa dalla NBA, ma non bastò: Orlando vinse la serie per poi perdere il titolo contro i campioni degli Houston Rockets.

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Dopo l’ultima sconfitta con Orlando l’atmosfera è stata surreale, pensavamo tutti di aver giocato sotto le nostre reali possibilità, sapevamo di essere una squadra migliore ma non eravamo pronti” – riportò Toni Kukoc ai media – “Michael ha ammesso di non essere nella forma giusta e sta prendendosi un po’ di tempo prima di inizare al massimo la preparazione: si presume che tutti faranno lo stesso così dimostreremo di quale pasta siamo realmente fatti.

Phil Jackson ammise di essere preoccupato della preparazione di Michael Jordan, almeno all’inizio.
Due anni di lontananza dal gioco, l’esperienza del baseball, la morte di suo padre e poi Hollywood per le riprese di Space Jam. Ma MJ non era l’unica fonte di preoccupazione: dopo la partenza di Horace Grant, i Bulls avevano bisogno anche di qualcuno che andasse a conquistarsi le palle sotto canestro: nel ruolo di ala forte c’era un buco!

Jackson stilò una lista di almeno cinque ali grandi disponibili sul mercato, gente del calibro di Derrick Coleman o Jayson Williams, ma per varie complicazioni non si riuscì ad arrivare a questi nomi, così l’assistente General Manager Jim Stack iniziò a spingere forte verso un nome tanto altisonante, quanto particolare: Dennis Rodman. Il provocatore ex-Pistons era a San Antonio e, nei Playoffs, era sembrato in una fase discendente della sua carriera – tuttavia –  un solo anno di contratto rimastogli, convinse Jerry Krause a dargli una chance.

“La domanda era: accettereste questo tizio?” – dice Phil Jackson riferendosi alla sua squadra – “Gli ho parlato il giorno prima di iniziare il training camp, poi mi sono rivolto alla squadra: ‘I ragazzi dovranno essere tolleranti e pazienti, non dovranno cadere in gelosie varie.’ Ho sempre provato a fare delle regole uguali per tutti ma con lui era impossibile; gli dicevo persino che l’avrei multato per ogni ritardo, ma non l’avrei mai mandato via. Non iniziò bene, mi avvicinai ma non mi volle stringere la mano. Così disse: “Merito più soldi, sono un giocatore migliore di quello che guadagno.” E io ribattei: “Se giochi, ci sarà un premio che riguarda la squadra, non si tratta di singoli, qui parliamo di produttività e di interazione: guadagnerai ciò che fai sul campo! La mattina successiva lo incontrai nel mio ufficio e parlammo tutto il tempo di quanto fossero interessanti i Nativi Americani. Ecco la tipologia di persona che è Dennis Rodman!”

Non era solo un problema di ala grande; i Bulls, infatti, erano stati in declino già dall’anno del terzo titolo vinto grazie alla determinazione di Jordan e poco altro. Ma nel 1993-1994, nonostante una stagione magica – anche senza Jordan – i Bulls furono cacciati fuori dai Knicks per una controversa chiamata arbitrale, finendo fuori dalle Finals ancora una volta.

Chicago era convinta che Michael non sarebbe più tornato, persino Scottie Pippen – che guidò magnificamente quella squadra – ne era convinto, per questo non fece altro che assillare Jackson e la dirigenza per trovare una guardia tiratrice che lo sostituisse ed il free-agent più allettante era Ron Harper, un suo fido amico: veniva da Miami University ed è stato una delle ragioni per cui i Cavs dei tardi anni ’80 si classificarono più in alto dei Bulls; di certo non era Jordan, e non lo sarebbe mai stato, ma era così atletico che in quella posizione riusciva a dominare la scena in molte occasioni. Nelle stagioni ai Clippers si infortunò gravemente al legamento crociato anteriore, ma fu comunque uno dei migliori realizzatori della squadra, pur non essendo atleticamente esplosivo come ai tempi dei Cavs.

Il primo anno ai Bulls fu duro, ed Harper fu uno dei giocatori con il rendimento peggiore tra tutti, sebbene avesse firmato uno dei contratti più ricchi della storia della squadra. Harper, Pippen e Jordan: tre guardie straordinarie; Jackson chiese a Jordan di giocare inizialmente da point-guard, ma si rese conto che nessuno di questi tre ragazzi poteva affrontare realmente un guardia difensivamente, così Michael rimase sugli esterni mentre Harper e Pippen si interscambiavano i compiti difensivi all’interno di uno stesso match.

Pian piano si stavano unendo tutti i tasselli: c’era Rodman a lottare a rimbalzo, c’era Harper, pronto per affrontare i migliori back-courts della Lega, e poi c’erano i reduci della squadra orfana di Jordan degli anni precedenti: giocatori che avevano visto i Bulls come una vetrina per vincere titoli e per arrivare alla gloria dalla periferia; ora avevano capito che c’era molto di più!
Tutti maturano cestisticamente e poi, una volta capito il gioco, capiscono cos’è che devono fare” – asserì Kukoc ai tempi – “Stiamo entrando nel nostro terzo anno di contratto: Kerr, Wennington, io e Luc Longley, pensiamo di aver appreso come si gioca con la “Triangle Offense”, di averne recepito i meccanismi, e di poter servire al meglio quei mostri sacri di nome Michael, Dennis, Ron e Scottie che in difesa ci garantiscono copertura. Siamo tutti più tranquilli.

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Stava venendosi a creare un gruppo di talenti fenomenali, ma c’era una qualità che pochi potevano fiutare, che nessuno aveva mai avuto prima: la natura implacabile di un vincente.
Tutti sapevano quanto Michael fosse rimasto sconvolto dell’uscita prematura ai Playoffs dell’anno precedente, ma altrettanti intuivano quanto motivato fosse il ragazzo dopo un fallimento: ok, era sempre stato così, ma questa volta era un qualcosa di mai visto prima.
Si respirava un’aria di cambiamento: non si riusciva ancora a capire quale fosse il sentiero di questi Bulls, ma si sapeva che quello sarebbe stato un anno diverso, speciale.

I Bulls vinsero le prime cinque partite, ma contro squadre molto più deboli sulla carta. Il primo test vero fu alla sesta contro Orlando, campionessa della Eastern Conference, forte del talento di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway, una delle migliori guardie in circolazione. Hardaway fu magico, realizzando 36 punti e facendo letteralmente fuori MJ nella vittoria di Orlando.
I Bulls tornarono a casa e il mondo NBA stava già emettendo le prime sentenze: ‘Penny Hardaway in cima all’Olimpo’, ‘Michael Jordan è solo un ricordo del passato’, ma Jordan non si fece minimamente scalfire da queste supposizioni affrettate e i Bulls ne vinsero 10 di fila. Poi, altre tre.

Solo dopo il primo mese di regular season ci rendemmo conto di quanto stessimo facendo” – continua Steve Kerr – “La sconfitta contro Orlando fu un passo falso, una sorta di shock, ma dopo una sconfitta la motivazione che ci trasmetteva Michael era tale che ne avremmo potute vincere sempre 10 di fila.”

I Bulls chiusero il loro giro nella Western Conference con 5 vittorie su 6, l’unica sconfitta arrivò contro i Seattle Supersonics, la principale rivale con Orlando. Fu un viaggio faticoso e, con un parziale di 11-2, i Bulls si diressero verso Vancouver. Era uno di quei momenti in cui Jordan, seppur non in una condizione eccelsa, trascinava comunque e si trovò di fronte gli umili Grizzlies, squadra da 15 vittorie totali alla fine dell’anno. I Grizzlies conducevano fino a quando una guardia, quasi sconosciuta ai più, Darrick Martin, gridò a Michael in panchina quanto fosse sicuro della vittoria. Sapete tutti com’è andata a finire: Jordan entrò, segnò 19 punti in 6 minuti, e se ne andò via con la vittoria in tasca gridando: “Ti avevo detto di non parlare con me, piccolo uomo!

Da Natale, ad anno nuovo ci trovammo davanti ai secondi di 10-11 partite” – ricorda Kukoc – “Così iniziammo a concentrarci solo sul nostro gioco, sul modo di giocare a pallacanestro. Sentii un paio di volte ‘Il prossimo mese lo affrontiamo senza una sconfitta’, robe del genere. Non era importante contro chi stessimo giocando; il principale obiettivo era quello che dovevamo fare in campo, il nostro modo di eseguire ciò per cui ci stavamo allenando, più di dove stessimo giocando: non c’erano né New York, né Orlando che tenessero. Noi eravamo concentrati.

Ora i Bulls stavano davvero sul pezzo, 23-2, una sconfitta ad Indiana fino a una striscia di 18 vittorie consecutive che significarono un inizio di 41 vinte e 3 perse per poi dominare i Lakers, emozionati per il ritorno di Magic Johnson. La Eastern Conference era stata praticamente egemonizzata nonostante Orlando avesse ottenuto 60 vittorie in quella stagione.

Bill Wennington, tra gli altri: “La quantità di vittorie non aveva importanza per Phil, il nostro obiettivo era quello di raggiungere e vincere i Playoffs. Il nostro allenatore disse: ‘Non possiamo preoccuparci dei numeri, dobbiamo conoscere i numeri di cui necessitiamo per entrare nei Playoffs!’. Era sempre distaccato dai record, dalle cifre, la gente parlava già di 70 vittorie ma a Jackson non importava. Phil Jackson fiutava già la straordinaria leggenda che la sua squadra stava scrivendo quell’anno!” Anche alcune sconfitte furono incredibili: i Bulls persero a Denver nonostante i 39 punti di Michael Jordan, dopo la commovente vittoria contro i Lakers, e i Nuggets costrinsero Chicago a segnare sul tabellino la quarta sconfitta della loro stagione regolare.


“ ‘Abbiamo avuto un inizio del genere l’anno del nostro secondo titolo’, mi scrisse Jerry Reinsdorf, ‘Spero tu non voglia rompere quel record’ “, Jackson ricorda. “Ero tipo ‘No, stiamo solo giocando a pallacanestro’.
Avevano voglia di vincere tutte le partite, non lasciare niente per strada. E’ stata una squadra che ho amato: Michael era lì per dimostrare che, il suo, era un ritorno vero dopo i Playoffs deludenti della precedente estate. Voleva lasciare ancora qualcosa nei cuori della gente! Dennis stava confermando le aspettative e si adattò come un guanto di lattice aderisce alle mani, perfettamente. Toni Kukoc e Rodman giravano anche come ‘5’, era una squadra duttile e malleabile, per i nostri avversari erano davveri tempi duri.

I Bulls contrassero l’unica sconfitta in back-to-back contro la Phoenix di Charles Barkley e Kevin Johnson in una re-edition delle finali del 1993. Ma il modello vittorioso e costante riemerse subito portando i rossoneri a 13 vittorie di fila con una piccola interruzione a Miami, e quindi ad un pauroso record di 54 vittorie e 6 sconfitte.
Non c’era tregua neanche in allenamento”, ricorda Wennington, “Michael era al 100% per tutta la sessione, sfidava tutti e ci spingeva oltre i nostri limiti reali. Era concentrato su sé stesso ma anche sulla nostra crescita. Ci fece sapere che l’unica ragione per poter saltare gli allenamenti doveva essere, o la nostra morte, o una paralisi. Era indiavolato.

Bill prosegue: “Un giorno fui l’ultimo ad arrivare nello spogliatoio, avremmo dovuto iniziare entro 15-20 minuti; Toni e Ron erano nella stanza degli attrezzi e fecero sapere che non avrebbero partecipato agli allenamenti. Mentre mi fasciavo sentii Michael: ‘Harp, cosa stai facendo?’ Ron disse di avere il ginocchio dolorante: ‘Mi riposo oggi, Mike..’; Jordan, con il diavolo negli occhi rispose: ‘Vieni sul parquet, non abbiamo bisogno di niente qui in spogliatoio.’ – poi chiese a Toni – ‘Cosa c’è che non va?’ e Toni disse di aver dolore al pollice. Michael scosse la testa e urlò: ‘No, così non va! Non abbiamo bisogno di voi lì dentro, venite fuori e fate quello che ci siamo prefissi di fare; a meno che voi siate impossibilitati a camminare non vedo perché non dobbiate allenarvi!’ Si alzarono, si fasciarono ed entrarono in campo. Era questo il leitmotiv di Michael, se ti sedevi eri fuori per sempre!

Gli allenamenti erano più difficili delle partite stesse, non esisteva tregua. Michael scalpitava, spingeva e trasmetteva ai compagni la voglia di rivalsa. Dennis Rodman, John Salley e James Edwards, ex Pistons dei miracoli, ammisero che non c’era neanche un minimo di paragone con il lavoro svolto a Detroit. A Chicago si lavorava su ritmi assordanti!

Stava diventando un lento cammino verso le NBA Finals per i Bulls, stavano diventando così dominanti che dovettero fermarsi a riflettere. “Harper indossava una maglietta con scritto ‘Non significa niente se non hai l’anello.’” – rimembra Steve Kerr – “Non è stato qualcosa di cui abbiamo parlato a lungo, stavamo cavalcando l’onda della consapevolezza!
I Bulls chiusero la stagione con 72-10 indiscutibile quanto memorabile e “sweeparono” i Miami Heat al primo turno dei Playoffs, si sbarazzarono dei Knicks con un secco 4-1 e distrussero gli Orlando Magic nel duello anticipato delle Finali di Conference con un 4-0 annichilente.

Shaq fu così sconcertato che quasi non si presentò all’ultima partita e lasciò Orlando per i Lakers. I Bulls erano entrati nelle Finals con un 11-1 considerevole nei Playoffs, pronti ad affrontare i campioni della Western Conference, i Seattle Supersonics, forti di 64 vittorie in Regular Season.
È subito 3-0 per i Bulls che sono volati sul 14-1 di record nei Playoffs, una striscia da primato. I media impazzirono e proclamarono quei Chicago come la miglior squadra di sempre; proclami che – però –  portarono la squadra a sedersi sugli allori: persero 2 partite ma, tornando a Chicago, portarono la serie sul 4-2 assicurandosi quel titolo dei record.

La squadra ha avuto spirito e si è divertita” – disse Jackson al termine – “È stato un gruppo di adulti e ragazzi un po’ meno esperti; ad esempio abbiamo scommesso su Luc Longley perché non ha avuto paura di Shaq, nonostante sia giovane, poteva raddoppiarlo sempre ed ha grandi doti da passatore!

Michael è tornato ai livelli cui ci aveva abituato, se non più alti”, continuò Phil, “È diventato più del marcatore in post-up che ci aspettavamo. Lui arrivava al ferro, sempre, ancora una volta. Scottie è salito al miglior livello della sua carriera ed ha esercitato una leadership mai vista prima. Non eravamo lunghissimi come la squadra del primo three-peat ma Rodman in post, attivo a rimbalzo e sugli attaccanti avversari, e la velocità di Kukoc – nonostante la stazza – ci hanno permesso di difendere adeguatamente. Jimmy Rodgers, il mio assistant coach, è stato ai Celtics dei miracoli, ne avrà viste di grandi squadre ma è stato letteralmente spiazzato ed estasiato dal modo in cui questa squadra ha dominato tutta la Lega.

E probabilmente una squadra del genere non esisterà mai più.
Nel 1995-1996, la storia ha parlato: 72-10 scritto nella leggenda. C’è qualcuno che riuscirà ad andare oltre i leggendari Bulls?