Ho incontrato Shaquille O’Neal per la prima volta in un hotel per l’All-Star Game, avevo un press pass grazie a Canal Plus. Vagavo per gli spogliatoi per riuscire a vedere tutto ciò che potessi e ad un certo punto arriva Shaq, con una telecamera che lo insegue; agitava la mano come se volesse chiamare qualcuno, non avrei mai potuto minimamente pensare che stesse chiamando me, mi girai e invece stava indicando proprio me. Mi disse “Vieni, vieni qui!” e ci recammo all’interno dello spogliatoio; ci trovai Gary Payton alle prese con un po’ di stretching, mi rivolse la parola ed io, dal canto mio, non riuscii a pronunciarne neanche una.”

Dieci anni dopo, il bambino che non riuscii a cavare neanche una parola dalla sua bocca tornò in quello spogliatoio, ma da protagonista: stiamo parlando di Marc Gasol.

Marc arriva a Memphis nel 2001 per accompagnare suo fratello Pau Gasol, con tutta la famiglia e, mentre il fratello maggiore stava per diventare il secondo Spagnolo a metter piede nella NBA, Marc aveva 16 anni e doveva frequentare le high school: venne scelta l’America per il suo futuro, in particolare la Lausanne High School ed il piccolo gioiellino catalano non ebbe molte difficoltà nel farsi ricordare.

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I suoi professori ricordano la sua altezza: faceva fatica a passare con facilità le porte della scuola e muoveva in modo stravagante la testa per evitare incidenti dolorosi. Inoltre, era tanto alto quanto timido, piaceva molto alle ragazze ma era troppo insicuro per approcciarle. L’unica via di scampo da quel rossore che gli veniva in viso, per una nuova realtà che quasi lo soffocava, era il campo da basket.

Si dice fosse divertente andare a vedere Marc alle superiori, era assolutamente il giocatore con la stazza più imponente dei suoi ma passava la palla – già allora – con un’ineffabile facilità. Quando il piccolo dei Gasol militò nella scuola del Tennessee, Lausanne ottenne il suo miglior risultato di sempre nel torneo nazionale, con un secondo posto che ancora è impresso nella storia della città. Scelse il numero 33, perché era quello che il signor Shaquille O’Neal aveva ai tempi delle high school ed oltre al talento, Marc aveva un’altra cosa in comune con Shaq: il piacere per il cibo. Un piacere così grande da affibbiargli il soprannome di “The Big Burrito”. Nel suo anno da senior, venne nominato “Mr. Basketball College”, piazzando 26 punti, 13 rimbalzi e 6 stoppate di media a partita.

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A 18 anni, finì le scuole ed iniziò la sua avventura nel basket professionistico in Spagna, con il Barcellona. I suoi anni a Memphis avevano cambiato il suo fisico ed il corpo non sembrava reggere gli standard dell’alta competizione: i primi tre anni nella capitale della Catalogna furono un mix tra estrema giovinezza, infortuni ed alti e bassi clamorosi e si chiusero con un interlocutoria media di 3 punti a partita nell’ultimo anno con il Barça. Il suo livello era sembrato involversi clamorosamente e la sua carriera sarebbe potuta finire nell’oblio da un momento all’altro.

Ma nel 2006 arriva la svolta: qualcuno si accorge nuovamente di quel capellone un po’ sovrappeso che nelle mani sembra avere l’oro. La Spagna è pronta per i mondiali con un roster solidissimo apparecchiato per segnare per sempre la storia: Juan Carlos Navarro, Pau Gasol e Jorge Garbajosa ne sono i protagonisti, ma – poco prima di partire per la spedizione nipponica – la stella del Girona Fran Vazquez si fa male e coach Pepu Hernandez decide di dare una chance al minore dei fratelli Gasol.

La scelta apparve controversa e di parte; già: “Marc Gasol è un raccomandato, Pau avrà influito sicuramente!” ma l’allenatore sapeva – in cuor suo – di aver fatto la mossa giusta e durante la competizione, The Big Burrito dimostrò quanta fame di vincere e di migliorare lo contraddistinguesse e, soprattutto, di essere un all-around player di tutto rispetto.

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La Spagna avanzò alla finale con relativa semplicità. Ora davanti si ritrovava l’imbattuta Grecia di Zisis e Spanoulis oltre che uno spettro ancor più grande: l’infortunio della stella dei Memphis Grizzlies, Pau Gasol. Marc dovette entrare in campo con grande responsabilità ed aiutò la sua Nazionale a portarsi a casa il Mondiale con ben 7 rimbalzi in 17 minuti. Dopo i campionati del mondo, la sua storia è definitivamente cambiata: ora tutti si fidavano del fratello di Pau, ora non era più un raccomandato ed era pronto, finalmente, per diventare un Gasol, non un semplice fratello minore.

Si trasferì all’Akasvayu di Girona e triplicò le sue statistiche, tanto da rendersi eleggibile nel draft del 2007. L’America era di nuovo nel suo destino, o forse era tutto già parte di un piano definito al primo addio: Marc fu selezionato alla scelta numero 48 dai Los Angeles Lakers, che sembravano non aver bisogno alcuno di un giocatore nella sua posizione e, infatti, nel primo giorno di Febbraio del 2008 venne scambiato insieme a tre altri giocatori e a scelte future per il fratello Pau Gasol, che intanto si era consolidato come star assoluta del panorama cestistico americano.

Intanto, la sua iniziazione nella NBA doveva ancora arrivare. Marc, infatti, rimase a Girona e chiuse la stagione con 16 punti ed 8 rimbalzi di media, conquistando il titolo di MVP della Liga ACB. Il polverone che si scatenò intorno a Jerry West, GM dei Memphis Grizzlies, fu ridondante. Nonostante il più piccolo dei Gasol fosse un prospetto interessante, lasciare andare Pau per delle scelte così irrisorie fu una mossa tacciata subito di favoritismi per il suo ex team. La stella dei Lakers degli anni ’60 e ’70, però, più in là, avrebbe avuto ragione. E mentre Los Angeles diventava una squadra sempre più vincente, Memphis iniziava la sua meticolosa ricostruzione!

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Nel 2008, Marc Gasol sbarcò finalmente nella NBA: i primi mesi furono duri, dovette mettere apposto il suo fisico ed avere tanta pazienza, ma il contesto di Memphis sembrava quello ideale per crescere. I Grizzlies, infatti, non avevano nessun tipo di aspettativa ed ogni vittoria destava una gioia elevata all’ennesima potenza. Il 22 Dicembre affrontò per la prima volta suo fratello Pau e non fu una partita molto fortunata per i Grizzlies: Los Angeles stravinse ed il piccolo dei Gasol non ebbe proprio la sua miglior partita in quel frangente, nonostante una buona attitudine difensiva (8 punti, 7 rimbalzi e 2 assist).

I Memphis Grizzlies chiusero la stagione con il quinto peggior record della Lega, ma – dal punto di vista individuale – le cose per il rookie da Girona erano andate più che bene. Marc fu invitato a ciò che noi oggi chiamiamo Rising Star Challenge e chiuse con 12 punti e 7 rimbalzi di media il suo anno; tuttavia, ciò che più premeva adesso era trasformare la sua Memphis in qualcosa che assomigliasse sempre di più alla parola “vittoria”! Nell’estate del 2009, la franchigia ingaggiò un uomo da 20 punti di media a stagione di nome Zach Randolph, l’ex Trail Blazers e Knicks si affiancò ad un “nuovo” Marc Gasol, cambiato nel fisico e nella testa per migliorare esponenzialmente il suo gioco.

Perse tantissimo peso e tutti i suoi compagni erano fieri testimoni di quanto – di giorno in giorno – diventasse leader sempre più carismatico e tecnico della sua squadra: 30 kg per scrollarsi via di dosso quella nomea di “grasso” che l’avrebbe per sempre ostacolato nella sua scalata per diventare uno dei più grandi della NBA. Era diventato un giocatore più completo, aveva aggiunto un po’ più di corsa per rendere ancor più maggiormente strenua la sua difesa e quella mano, beh, quella mano incantava sempre di più! Era la prima stagione in cui i sogni di Marc avevano una decisa ragion d’essere tali. Era divenuto il momento di diventare un All-Star, ma qualcuno reputò il passo ancora troppo precoce.

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Memphis chiuse il 2009/10 con 40 vittorie e 42 sconfitte ed un decimo posto nella Western Conference che suonava nella testa di Big Burrito come la più bruciante sconfitta che avesse mai subito. Tuttavia, i suoi numeri crescevano ancora e crebbero fino a 15 punti e 10 rimbalzi di media a partita ed i Playoffs non tardarono ad arrivare: nell’Aprile del 2011, le porte della post-season si aprirono e la sfida fu subito delle più ardue. Davanti ai Grizzlies – infatti – si presentò la miglior squadra della Western Conference, i San Antonio Spurs e – nonostante ciò – Gasol parve subito spavaldo e carico nelle interviste pre-gara e non ebbe tutti i torti ad esserlo.

Gli orsi portarono a casa Gara 1 grazie ad un buzzer beater di Shane Battier, Marc e Z-Bo combinarono per 49 punti e 24 rimbalzi in due ed il tutto fu assistito dall’ottima prova difensiva fornita da “cagnacci” nel ruolo, quali Tony Allen e Mike Conley. Fu la prima vittoria nei Playoffs della storia della franchigia, ma la squadra di coach Lionel Hollins era di fronte ad una sfida quasi improba: difatti, solo tre volte una squadra con l’ottavo posto in regular season aveva battuto la prima testa di serie nella storia e Memphis superò la battaglia. Un 4-2 per volare al secondo turno dove, ad aspettare i Grizzlies, erano pronti gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant.

KD era stato il miglior realizzatore della regular season, ma la serie si mise subito bene: 2-1 per i Grizzlies con il fattore campo a favore che – però – non bastò. In Gara 4, i Thunder la spuntarono dopo ben 3 overtime e si arrivò a giocarsi Gara 7 alla Chesapeake Arena di Oklahoma City. Grazie ad i 39 punti di Kevin Durant e ad una straordinaria tripla-doppia di Russell Westbrook (che iniziava a farsi largo nella Lega come il playmaker di nuova generazione che tutti ad oggi conosciamo), OKC si guadagnò le Finali di Conference, facendo sprofondare Memphis nella più cocente delle disperazioni. Ci avevano creduto, ma mai erano parsi in grado – in quella Gara 7 – di poter fare il passo finale verso la gloria.

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Marc Gasol divenne free agent nell’estate che seguì, ma la sua scelta fu ancora Memphis, quella città che gli aveva dato, poi tolto, restituito, e poi negato tutto ancora. Credette per l’ennesima volta che la via giusta sarebbe stata quella delle sue origini ed i fatti gli hanno dato ragione: un senso di dovere esistenziale ed etico portato quasi al limite che l’ha ripagato dei sacrifici che ha dovuto fare per affermarsi. Da lì, la stima sempre più crescente di tutti i suoi compagni di squadra e la sua grandezza umana, oltre che tecnica, contribuì a regalargli il soprannome di “Big Spain”.

Nessuno più era sorpreso dal suo costante, e tanto più coerente, miglioramento. Da un flop raccomandato e poco desiderato, era finalmente divenuto ciò che aveva sempre sognato: l’idolo dell’intero stato del Tennessee cestistico. Nel 2012, avvenne la consacrazione definitiva: il piccolo dei Gasol era finalmente un All-Star player. Quel ragazzino che – nel 2002 – si aggirava nell’hotel di quei campioni così alti e famosi, ha dovuto affrontare un viaggio lungo 10 anni con destinazione Amway Center, Orlando, per ritornare a sognare. Stavolta ad occhi aperti, con 30 kg in meno ed una consapevolezza da uomo sagace.

Il fratellino di Pau ora ha un nome: si chiama Marc Gasol, il cui passato recente è ben noto a tutti noi. Marc è tornato all’All-Star Game nel 2015 da titolare ed è – ad oggi – il centro più tecnico della Lega, oltre che uno dei più dominanti. The Big Burrito, Big Spain, e chi più ne ha più ne metta, sta facendo ancora passi in avanti e – nell’estate che ci siamo appena lasciati dietro – ha scelto Memphis, ancora una volta, forse l’ultima, chi lo sa, per regalarle quel sogno che poi è sempre stato anche il suo: vincere.