Akron (OH), città di circa 200.000 anime. Tra i suoi figli annovera già illustri cestisti, vedi Gus Johnson, Joseph Blair (visto per qualche stagione anche alle nostre latitudini), o il più celebre “The Chosen One”, LeBron James. In questa cittadina, il 14 marzo 1988, grazie a Dell e Sonya Curry venne alla luce il piccolo Wardell Stephen II, che poi per chiunque diventerà, più semplicemente, Stephen o Steph, che dir si voglia.

Ereditò l’amore spasmodico per lo Sport dal padre Dell (apprezzato cestista), di cui andava a vedere le partite e con cui partecipava allo “shoot-around” nel riscaldamento. Dal padre, però, non ereditò il fisico, che si muoveva in modo inverso alla sua smodata passione.

A 9 anni, neanche a dirlo, era il più piccolo della sua squadra. Si alzava dalla panchina solo quando il coach aveva bisogno di attaccare la zona: definire “educata” la mano di Steph (altro regalino del padre) sarebbe riduttivo. “The zone buster”, il demolitore della zona: così era chiamato il primogenito di Dell.

Distrutti svariati record al liceo, tuttavia, si ritrovò fuori dai programmi delle grandi scuole, a causa del suddetto fisico poco sviluppato (circa 188 centimetri per 74 chilogrammi).

L’unica università di prestigio che si interessò a lui fu la Virginia Tech (università del padre) ma, nonostante il gran desiderio di Steph di giocare per gli Hokies, declinò l’offerta, poiché volevano tenerlo in panchina o, peggio, proporgli un “red-shirt year” (negli States è una pratica usata per allungare il periodo di eleggibilità: uno studente-atleta segue i corsi, si allena ma non gioca, avendo, praticamente 5 anni per sfruttare l’eleggibilità).

Davidson v Kansas

Optò, dunque, per i Davidson Wildcats, franchigia che non vinceva una partita del torneo NCAA dal 1969. Nonostante i limiti fisici, uno dei pochi a vederci lungo fu Dave Telep (scelto poi dagli Spurs come coordinatore degli scout per i draft.. un caso?!), il quale affermò che quella era “la scelta che avrebbe lasciato il segno sul programma di Davidson”. L’attacco “up-tempo” (fatto di attacchi rapidi e difese asfissianti) dei Wildcats si sposava alla perfezione col talento del giovane Steph.

Chiuse la sua carriera collegiale con 25.3 punti di media (41.3% da oltre l’arco), diventando il leader all-time in punti segnati, tiri da tre punti e tiri liberi realizzati, partite con oltre 30 punti e partite con oltre 40 punti. Inutile aggiungere che Davidson qualche partita nel torneo, con Stephen, iniziò a vincerla…

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Tra una cosa e l’altra, trovò anche il tempo di vincere un argento al Mondiale U19 con gli USA (avrà modo di migliorare questo risultato 3 e 7 anni dopo).

Fu scelto, dunque, al draft del 2009 dai Golden State Warriors alla settima scelta, firmando un quadriennale. Esordì contro i Rockets e, in circa 36 minuti, mise a referto 14 punti, 7 rimbalzi e 4 recuperi. Non male ma, come si dice oltreoceano, “the best is yet to come”, o “il meglio deve ancora venire” (se preferite la versione di Ligabue). E già, perché pochi mesi dopo (il 10 febbraio 2010) registrò la sua prima tripla-doppia (36+13+10). Non vinse il titolo di Rookie of the Year 2009, classificandosi dietro il solo Tyreke Evans. Ma il tempo è galantuomo, si dice.

Nel secondo anno da pro, infatti, vinse lo Skills Challenge durante l’All-Star Weekend, e gli fu assegnato l’NBA Sportsmanship Award (conosciuto anche come Joe Dumars Trophy), oltre a condurre la lega per la percentuale di tiri liberi realizzati.

Ad oggi, oltre ad aver guidato varie statistiche nella lega e aver polverizzato qualche record di franchigia, vanta anche una presenza come All-Star e, soprattutto, l’inserimento nell’All-NBA Second Team, riconoscimenti arrivati nella stagione 2013-2014. Stagione in cui ha stabilito anche il suo career-high al Madison Square Garden (non proprio un’arena qualunque): 54 punti, con 11-13 al tiro da tre punti. Inutile dire che le 11 triple realizzate sono record di franchigia, a una sola tripla di distanza dal record della lega.

Intanto, la crescita esponenziale di Steph corrisponde a una crescita della sua squadra. Nel tempo arrivano Bogut, Barnes, Landry e, soprattutto, Klay Thompson (draftato nel 2011), con cui Steph Curry formerà una coppia mortifera di tiratori (“the Splash brothers”). Accanto ai nuovi arrivi, l’esperienza di David Lee e Andre Iguodala: un mix vincente, che porterà i Warriors ai playoff dopo 7 anni. Cedono agli Spurs (4-2) nella semifinale di Conference, ma la dirigenza inizia subito ad ingegnarsi per la nuova stagione.

Nel 2014-2015, sembra che i Warriors abbiano trovato l’alchimia giusta: la definitiva consacrazione di Steph Curry, la costanza di Thompson, l’esplosione di Draymond Green, la freschezza dei giovani, l’esperienza dei veterani e la sapiente guida di Steve Kerr. Nel momento in cui scrivo questo pezzo, i Warriors hanno il miglior record dell’intera NBA e sono tra i principali contender per l’anello. Buona parte dei meriti, ovviamente, devono andare al ragazzo col 30 (che fu del padre) sulle spalle. Fate attenzione alle cifre di questa stagione.

  • 23 punti.
  • 5 rimbalzi.
  • 8 assist.
  • un PIE (Player Impact Estimate: calcola l’impatto di un giocatore in ogni partita giocata, offrendo una percentuale delle cose buone fatte) di 18, terzo nella NBA dietro a Anthony Davis e James Harden.
  • un Net Rating (differenza tra valutazioni offensive e difensive) di 19.6, primo nella NBA (e con altri 3 Warriors nelle prime 5 posizioni)
  • un plus-minus di 12.9, dietro al solo Terrence Jones, che però ha giocato appena 4 partite quest’anno.

Steph è il trionfo del cervello sui muscoli, della tecnica sul fisico.

Derrick Rose, l’ultima PG a vincere il titolo di MVP, ebbe numeri molto simili a quelli che sta collezionando il nativo di Akron quest’anno.

Sognare (ma neanche poi così tanto) non costa nulla.