Steph Curry, Klay Thompson, Kobe Bryant, Danilo Gallinari, Alessandro Gentile, Ben Simmons, Luke Walton, ma anche Sergej Karasev, Larry Drew II, A.J. Price, Brian Cook e Glenn Robinson III. Questi, chi più sotto gli occhi dei riflettori (i primi) e chi meno (i secondi), appartengono e rappresentano tutti la medesima categoria, ovvero quella dei figli d’arte, ragazzi che hanno scelto di seguire le orme dei genitori provando a cimentarsi (con risultati alterni) nella stessa carriera professionale.
Una scelta, quest’ultima, che porta inevitabilmente – una volta compiuta – a costanti paragoni tra il percorso e i risultati conseguiti dal padre o dalla madre e quelli ottenuti invece dall’erede, aggiungendo alla vita non solo professionale, ma anche quotidiana, di quest’ultimo un ulteriore (e pericoloso) elemento di pressione, potenzialmente in grado di stritolare e compromettere gravemente serenità e certezze.
Si tratta dunque di un vero e proprio peso, per gestire il quale bisogna dimostrarsi capaci di saper reggere di testa nella vita di tutti i giorni prima che sul campo: non risentire di questo fardello, facendosi scivolare addosso confronti, parallelismi e non dando importanza a cosa è stampato sul retro della maglia è, infatti, fondamentale per esprimere al meglio le proprie potenzialità e crearsi un nome e una carriera a prescindere dall’influenza e importanza del proprio cognome.
Non tutti ce la fanno e non tutti ne sono in grado e di questo, spesso, ce ne si accorge in corso d’opera, quando taluni (chi molto presto, chi ostinatamente tardi) smettono di giocare schiacciati dalla figura dei genitori e dalle alte aspettative che li accompagnano.
Queste scompaiono solo in un caso: quando il figlio è nettamente migliore del padre. In questa situazione, il cognome e la famiglia intera dell’atleta in questione vede cambiare di colpo il proprio status, con tutti i componenti che vengono osservati sotto una nuova luce e prospettiva.
Ora, quando un figlio d’arte ha 11 anni è difficile dire se potrà fare meglio del padre o subire la sua figura, soprattutto se il suo cognome di battesimo è James, ma sta di fatto che il primo discendente del neo campione NBA coi Cleveland Cavs, anche se discorsi del genere sono davvero prematuri e rischiano di mettere ancora più pressione a un giovane la cui vita già adesso non deve essere propriamente tranquilla, potrebbe davvero emergere ai livelli del più illustre genitore e dare continuità, in termini di vittorie, impatto e peso nella Lega, a quello che Lebron Sr. sta facendo ora.
Che il ragazzo sia portato per la pallacanestro non vi sono dubbi, basta fare un giro su YouTube per vedere come, a 11 anni, sappia già esprimersi piuttosto bene con la palla a spicchi su un parquet, dimostrando di possedere qualità e skills davvero notevoli. Così notevoli da valergli, secondo fonti ben informate, già alcune richieste da alcuni dei college più prestigiosi d’America (Kentucky e Duke su tutte, senza dimenticare poi Ohio State dove LeBron Sr. sarebbe andato se non avesse deciso di passare dalla high school direttamente tra i professionisti), tutte pronte a far la fila per strappare le prestazioni di un giovanissimo che si sta mostrando dal grande avvenire.
Le domande però sorgono spontanee: quanto è da considerarsi credibile un’offerta del genere a quell’età e quanto, invece, la si può valutare come una (facile) trovata pubblicitaria? Quanto bene può fare e quanto può influire sulla carriera e sulla vita di un undicenne sentire voci e proposte del genere, oltre ad essere già affiancato da molti al padre per abilità e potenzialità?
Il Prescelto in questo senso si è già espresso criticando le offerte pervenute a suo figlio e più in generale a un giovane di quell’età: “Questa dovrebbe essere una violazione. Non dovrebbe esser possibile reclutare ragazzi di 10 anni”, queste le parole con cui James ha difeso il suo Lebron Jr. da un’attenzione mediatica e una pressione sempre più spasmodica e insensata nei suoi confronti.
Insomma, se anche il talento ci fosse (e molto probabilmente c’è), in America è un dato di fatto che stiano trattando un ragazzo neanche adolescente quasi come un adulto, non alleggerendogli il compito già difficile di essere il figlio di una superstar mondiale, ma anzi aggiungendo altro peso sulle sue ancora giovani e leggere spalle, con il rischio non solo di bruciarlo sportivamente ma di segnare quello che, sulla carta, dovrebbe essere uno dei periodi più spensierato e sereni della vita umana: l’infanzia.