Come ogni anno quando giungono le NBA Finals mi ritorna alla mente una squadra: i Lakers dell’annata 2003/2004. Ma perchè proprio quella squadra? Perché una squadra perdente, sconfitta malamente in 5 gare dai Pistons, e non magari la squadra del three peat dei primi anni 2000 oppure una degli indimenticabili anni di Magic Johnson ?
Perché certe squadre possono nascere solo nella città degli angeli sotto la scritta Hollywood. Tutto ciò che è avvenuto quell’anno all’interno dello spogliatoio dei Lakers sarebbe degno di una pellicola cinematografica.
Ma andiamo con calma, riavvolgiamo il nastro e partiamo dal principio. Estate 2003, arriva come un fulmine a ciel sereno sulla franchigia losangelina la denuncia per violenze sessuali fatta da una ragazza del Colorando ai danni dell’allora ventiquattrenne Kobe Bryant. La situazione appare già critica ancora prima della partenza della stagione ma si sa che quando le cose possono andare male, lo faranno. Come da copione, le cose per i Lakers precipitano. Vi ricordate gli screzi tra Kobe e Shaq? Tutti dopo i tre anelli pensavano che in qualche modo si fossero sopiti, ecco non è proprio così. A inizio stagione O’Neal dichiara che Kobe se ne sarebbe potuto tranquillamente andare se non tollerava i suoi comportamenti. La replica del 24 è immediata e afferma piccato: “Se dovessi andare via sarebbe per l’egoismo infantile di Shaq e la sua gelosia”. I due non vennero alle mani nei successivi allenamenti solo per l’intervento di Jackson e del suo staff.
Nel suo libro “Eleven Rings” Phil Jackson svela alcuni retroscena: le sfuriate di Shaq e le sue richieste economiche assurde, l’incapacità di Kobe di ascoltare i consigli, il suo isolarsi dalla squadra e le continue battute ironiche verso i compagni. Per non farsi mancare nulla, poi, Kobe aveva più volte discreditato Jackson di fronte a propietà e giornalisti. Questa ovviamente è la versione di Jackson, ma una cosa è certa: se anche il maestro zen si fece travolgere dagli eventi di quella surreale stagione, le cose – usando un eufemismo – non dovevano proprio andare bene.
Ah, forse non vi ho detto che in quella squadra v’era un talento INDIVIDUALE a livelli stratosferici. Oltre i già citati Bryant e O’Neal arrivarono quell’estate ” the glow” Gary Payton e Karl Malone, l’ex asso degli Utah Jazz. I due, da super-veterani, mal digerirono tutte le vicende extra cestistiche citate in precedenza. A loro quattro si aggiungevano giocatori del calibro di Horace Grant, Derek Fisher e Rick Fox. I giornalisti avevano definito quella squadra il “IV DREAM TEAM“.
Quasi per inerzia, per eccessivo talento, quella squadra arrivò a giocarsi il titolo. Come detto cadde sotto i colpi di Detroit, che a talento era sicuramente inferiore ma imbarazzò più volte L.A. per voglia di vincere e aggressività. Un laconico ma quanto esaustivo Rick Fox commentò così la sconfitta:“Una squadra batte sempre un gruppo di individui e noi abbiamo sbagliato il momento per diventare un gruppo di individui”.