Tra le tante magnifiche perle che l’avvocato Federico Buffa ha snocciolato negli anni in cui si è dedicato al commento delle partite NBA è sicuramente “Avete mai sbagliato una fidanzata? Io sì, lui”. Chi è questo lui? Tracy McGrady. Nato a Bartow, Florida, il 24 Maggio del 1979, l’uomo che tutti conoscevano come T-Mac è stato senza dubbio uno dei più emozionanti ed enigmatici giocatori degli ultimi anni.

Personalmente ho adottato quella definizione dello storico commentatore. Non tanto per la smisurata ammirazione nei suoi confronti, quanto per il livello di immedesimazione che ho riscontrato in quelle parole. Per chi è stato un fan di Tracy non può che essere così.

Un giocatore enigmatico dicevamo. Già dall’inizio. E’ uno dei primi giocatori a saltare l’anno al college per andare direttamente nella NBA. E già nel giorno del Draft inizia a far parlare di se. Era tutto fatto: il GM dei Chicago Bulls aveva organizzato una scambio per mandare Scottie Pippen agli allora Vancouver Grizzlies in cambio della loro quarta scelta assoluta, in modo da scegliere il giovanissimo McGrady. Tutto sfumò quando un giocatore del quale dovreste aver già sentito il nome, un certo Michael Jordan, minacciò il ritiro se questa trade fosse andata in porto. Roba che può segnare un ragazzo. Ma anche cose che possono far aumentare la tua autostima. Scottie Pippen, non serve che vi dica chi era e quanto fosse forte l’idea di rinunciarvi per avere Tracy in squadra.

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Svanita la possibilità di finire a Chicago viene scelto dai Toronto Raptors con la scelta n.9. Correva l’anno 1997. Le prime stagioni ad Raptors non sono da buttar via, aumentando di anno in anno le proprie statistiche e i propri record, e la coppia col cugino Vince Carter accese le fantasie dei tifosi Canadesi.

La svolta, però, per lui arrivò quando fu ceduto agli Orlando Magic. Qui ebbe la possibilità di vestire la maglia n.1 che fu del suo idolo di infanzia Penny Hardaway. Nella sua prima stagione vince il “Most Improved Player Award” come giocatore più migliorato della Lega e la prima convocazione per la partita delle Star. Inoltre nelle stagioni 2002-2003 e 2003-2004 si impone come miglior realizzatore della Lega con 32.1 e 28 punti di media. Ormai T-Mac non era più solo il cugino di Carter; ormai McGrady è una star.

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Ma succede di nuovo. L’ennesima scelta scellerata. Troppe per un talento così cristallino. La sua squadra era la peggiore della Lega e quando si trattò di trovare un colpevole le dita della stampa e dell’opinione pubblica, neanche a dirlo, erano tutte puntate su di lui. Stufo, stanco della situazione e con l’ultimo anno di contratto davanti, fu ceduto agli Houston Rockets nell’ambito di un maxi scambio che comprendeva Juwan Howard e Steve Francis. Il 9 Dicembre mette in chiaro chi tra le due squadre abbia avuto da guadagnare nella trade: I San Antonio Spurs sono le vittime. C’erano 35 secondi sul cronometro del quarto periodo e il punteggio era 76-68 per Popovich e co. Il resto è storia, e io non mi sento all’altezza di renderla meno magica, mistica, epica usando semplici parole. Guardate voi stessi.

Ci sono state due costanti che ne hanno caratterizzato la carriera: gli infortuni e l’incapacità di arrivare al secondo turno dei PO. I primi lo hanno sempre limitato, gli hanno fatto saltare grandi spezzoni di stagione e ne hanno troppo spesso messo in discussione il talento. Il secondo non so spiegarlo. Paradossale l’episodio dei Playoff 2009 quando i suoi Rockets, privi della loro prima opzione, appunto McGrady, superarono il primo turno, come non erano mai riusciti a fare. Sono state messe in discussione tante cose intorno a questo personaggio; sono state fatte molte congetture.

C’è chi, come me, sostiene che i suoi compagni non siano mai stati all’altezza. Poi c’è chi dice che sulla sua carriera abbiano avuto grande influenza le scelte sbagliate a proposito delle trade. Cosa avrebbero fatto insieme lui e un giovane Carter? Cosa sarebbe successo se si fosse trattenuto un anno in più in Florida e avesse condiviso il parquet con un giovane e aitante Dwight Howard? Non è dato saperlo.

C’è, infine, chi ha criticato il suo carattere e le sue doti di leadership. E questo, forse, è il vero centro della questione. “Penso che quando si possiede un talento donato da Dio, questo in qualche modo ostacola la tua capacità di allenarti, che poi è esattamente ciò che è successo a me. Semplicemente, non sono un giocatore che ama allenarsi”. Parole sue. E ancora: “Non era assolutamente un leader naturale, e avrebbe dovuto esserlo“ firmato Doc Rivers.  Ma se doveste chiedere a Kobe Bryant chi è il giocatore più impossibile da marcare la risposta sarebbe “McGrady, no questions”.

Una vita cestistica schizzofrenica. Un po’ il giocatore più forte del pianeta, un po’ il più fragile.

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Sugli ultimi anni non voglio neanche esprimermi, ne tediarvi. Quel ragazzotto che si scalda prima di Gara-7 delle Finals 2013 con la canotta degli Spurs (la numero 1, of course) e con negli occhi la consapevolezza che in campo non ci sarebbe sceso mai, non è Tracy McGrady. No, non lo è.

L’ho aspettato, l’ho amato, l’ho odiato, mi ha fatto stare, sportivamente (come se ci fosse una differenza), male, mi ha fatto strabuzzare gli occhi, mi ha fatto emozionare. Il nostro rapporto non è stato un fidanzamento di quelli che portano al matrimonio. No, non lo è stato. Ma è stato qualcosa di incredibile, è stato il primo amore, il primo bacio. Mai, ne ora ne tra 50 anni, dimenticherò i 46 a Natale, con la schiena a pezzi (“my back is killin’ me“), i 13 in 35 secondi, le windmill, quegli occhi semichiusi che dicono poco del talento che nascondono.

Ora e per sempre, col numero 1, c’è solo Tracy McGrady.