L’entusiasmo giustificato nonché eccessivo intorno all’arrivo di Goran Dragic a Miami, si spiega con la convinzione di alcuni e la supposizione di altri che, pausa scenica, lo sloveno sia il più forte playmaker nella breve storia degli Heat.

Bestemmia? Provocazione? Mezza verità?
Prendetela come volete, se volete.

Due certezze, tra molti punti interrogativi: Dragic è un giocatore d’innegabile impatto; gli Heat nel loro decorso storico raramente sono stati la squadra di una Point Guard. Eccezion fatta per un solo giocatore, canotta n. 10 ed unico peccato condiviso con altri campioni di aver vissuto i migliori anni durante l’er4CrrYrKoT16wQeGHTFOy_alonzo_mourning_tim_hardawaya MJ: Tim Hardaway.

Di Hardaway eccome se sono stati quegli Heat tra 1996 e 2001!

Tolto Timmy, Miami è stato il team di Pat Riley e Alonzo Mourning, di Shaq e Wade, di Spo e LeBron.
Non si ricordano e non trovano spazio sulle copertine di riviste vintage, i vari Bimbo Coles, Sherman Douglas, Anthony Carter, Rafel Alston, Chris Quinn. Gregari, non attori protagonisti.

Così come Norris Cole e Mario Chalmers, vincenti ma proletari nella squadra di altri proprietari, i Big Three of course.

Sia chiaro, lo sloveno 29enne, non ha vinto ancora niente se non il titolo di giocatore più migliorato dell’anno, ma giunge a South Beach all’apice della sua carriera. Come rivelano forma fisica, forza mentale e, in ultima analisi, statistiche: nelle prime 6 gare con Miami ha una media di 15.0 punti e 4.7 assist, già prossimo ai 16.2 punti mediamente segnati con i Suns nella prima parte di stagione. E, visto il ruolo da puro PM col quale Spo lo impiega (più palla in mano), chissà che non possa giungere ai 20.3 punti di media dello scorso anno.

Se ci riuscisse, sarebbe l’unica Point Guard della storia Heat a detenere tali numeri di finalizzazione.

No, non ci stiamo scordando di interpreti del ruolo di assoluto valore quali Brian Shaw (1992-94) e Gary Payton (2005-07), tre anelli il primo con i Lakers, un anello con gli Heat e l’ingresso diretto nella Hall of Fame il secondo. Ma loro, come altri, hanno vissuto in Florida stagioni non memorabili o nella fase terminale della carriera.

Gary Payton, ad esempio, ebbe il proprio culmine sportivo nei Seattle Supersonics e giunse a Miami come PM di riserva, mettendo a referto nell’anno vincente del 2006 una media di 7.7 punti e 3.2 assist. Nel team, ovvio, di Shaq e Wade.

hi-res-73439953_crop_northDragic più forte di un Hall of Famer quale Payton? No.
Questo Dragic targato Heat più forte di quel Payton targato Heat? Si.

Nell’anno di grazia 2006, primo trionfo di franchigia, Payton subentrava ad un giocatore al contempo amato dal popolo e criticato dai puristi, inevitabile destino dell’uomo genio e sregolatezza: Jason White Chocolate Williams. Goran Dragic, per certi versi, lo ricorda. E non solo per il colore della pelle.

Altra blasfemia? No.Heat
J-Will in versione Heat era ormai quel giocatore intento a reprimere le follie cestistiche che lo avevano reso noto ai Kings. Ricercava la disciplina, pur possedendo l’indole dell’estro. Senza, tuttavia, disdegnare la qualità.
Come Dragic, del resto: accelerazioni, fantasia, assist e spettacolarità in funzione dell’efficienza.

Con più ritmo, costanza e presenza di un J-Will che, elemento da non sottovalutare, doveva condividere il palcoscenico con compagni ingombranti quali Wade e O’Neal, Payton e Mourning.

Quegli Heat 2006 non erano la squadra di Williams, questi Heat 2015 possono essere la squadra di Dragic.

Anzi, lo sono già.
Il suo ascendente nelle pieghe di Miami, nonostante un campione limitato di 6 partite, è già evidente: nelle uscite con l’ex Suns in campo la media punti segnata è di 104, decisamente superiore al 94.0 stagionale che getta gli Heat al 28° posto per efficienza offensiva della Lega. Con tanto di high-score di 115 nell’ultima contro Phoenix.

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Dragic è il solo PM in graduatoria

Merito delle peculiarità del n. 7 che si riflettono sull’intera squadra: Dragic è infatti il 10° in NBA per percentuali al  tiro entro i  5 piedi dal canestro tra i giocatori con più di 3 tentativi a gara e contribuisce, grazie alle sue entrate rapide in  attacco, ad agevolare ritmo offensivo (altrimenti asfittico) e numero dei possessi su 48 minuti (gli Heat sono 30° su  30).

In più, al di là delle cifre, Dragic è playmaker creativo, ma difficilmente fuori controllo. Ha nella sua faretra frecce quali penetrazione e scarico nell’angolo, armi che costringono le difese ad una scelta netta. In assenza di Bosh,  alleggerisce la pressione avversaria sulla prima opzione offensiva D. Wade e permette a Spo di usare  l’imprevedibile Rio Chalmers in uscita dalla panchina, ottimo per svoltare gare compassate.

E’ il più forte playmaker nella storia Heat? Probabilmente no.
E’ il playmaker che potrebbe, in caso di rifirma estiva, avere il miglior fatturato ed il maggior impatto nella storia della franchigia? Probabilmente si.