“Finché ti si prende in giro vuol dire che sei vivo, quando ti si piange vuol dire che sei morto”

I proverbi sono lo specchio del paese che li crea.
5 giugno 1997, Brazzaville – Nel Congo Francese, terra che di tale detto è la culla, gli scherni citati sono assai meno delle lacrime versate. Lacrime che piangono vittime innocenti di guerre vane e maledicono decenni di politiche fallimentari, lucidamente pilotate da Stati Occidentali al riparo dai conflitti generati.

Quel giorno di una primavera agli sgoccioli, segnato dai bombardamenti che rasero al suolo la Capitale della Repubblica del Congo, scagliava nell’ultimo girone dell’Inferno una Nazione che nel secondo ‘900 mai aveva schiuso le porte del Purgatorio, figuriamoci quelle del Paradiso.

Aspettative così basse che si potrebbero anche toccare…

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La guerra del 5 giugno 1997 fu combattuta tra le forze leali al Pres. in carica, Lissouba, e le milizie del suo predecessore Sassou Nguesso che tornò al potere dopo aver già governato dal 1979 al 1992

5 giugno 1997, Chicago – Lo stesso giorno, diversi mondi, un solo pianeta. Negli States, Illinois, la gioia di vedere dominare Michael Jordan su quei Jazz d257915-utah-jazzalle casacche vintage con le cime innevate di Salt Lake City, trascendeva ogni qualsiasi pensiero negativo sull’esistenza. Le bombe, lì, quel giorno, furono 38 e piovevano dalle mani di MJ. Non demolivano case, cose o persone, ma scaldavano l’anima.

Africa e USA. Congo e NBA. Sciagura e speranza.
Universi paralleli possono, errore del destino, arrivare a toccarsi?

Di nuovo, Congo – Quel giorno di una primavera agli sgoccioli, a Brazzaville, un bambino come tanti aveva solo 7 anni. Figlio di quel Continente Nero prigioniero delle sue stesse ricchezze. Il suo nome: Serge Jonas Ibaka Ngobila, nato il 18 settembre 1989 da Amadou Djonga e Desire Ibaka e terzultimo di una tribù da 18 fratelli ufficiali che ne contava altri illegittimi venuti al mondo come conigli.

A 7 anni la guerra, ad 8, come se non bastasse, la morte della madre per cause naturali. Il tempo necessario per insegnare al proprio figlio i valori reali della vita, così difficili da cogliere in un contesto di disgrazia sociale. Su tutti, lo sport. Tra tutti, il basket. Amadou e Desire erano entrambi giocatori professionisti della palla a spicchi, militanti nella nazionale della Rep. Democratica del Congo (ex Zaire e Congo Belga) lei e della Rep. del Congo (Congo Francese) lui.

Finché le armi non sostituirono i palloni, Serge giocava a basket per le strade dissestate della sua città, con canestri di legno e, nel migliore dei casi, scarpe rattoppate da pezzi di cartone che ne coprivano evidenti squarci.

Giocavo ogni giorno e se c’era un giorno nel quale non potevo mi sentivo male, come se mi mancasse qualcosa”

“La guerra non ha occhi”, racconta un altro proverbio congolose.
Cieca, irruppe nella vita del giovane Serge che assieme al padre e alla nonna Christine Djonga fuggì da Brazzaville per rifugiarsi a Nord, ad Ouesso, dove la numerosa famiglia visse per 4 anni senza elettricità né acqua corrente.

Nel 2002 il ritorno nella città Natale coincise con l’ennesimo tormentato evento: l’arresto del padre, lungo 12 mesi, prigioniero politico di una politica allo sbando ed incarcerato poiché lavoratore nel porto del fiume Congo (lo stesso che ispirò Heart of Darkness), confine naturale delle due omonime Nazioni, entrambi in guerra: la Rep. Democratica del Congo e la Rep. del Congo.

Il Basket fu saldo veicolo di salvezza. All’età di 17 anni, Serge varcò le barriere africane sbarcando in Francia, poi in Spagna, Stato che lo ha adottato sportivamente accogliendolo tra le fila della Nazionale. In terra iberica militò nella squadra catalana di 2° divisione CB L’Hospitalet, prima di mostrarsi agli scout NBA tramite il Reebok Eurocamp del quale fu MVP.

Nel draft del 2008 venne scelto alla 24 dai Seattle Supersonics, futuri OKC, esordendo in NBA soltanto nel 2009. Primo giocatore della Repubblica del Congo ad arrivare nella Lega migliore del mondo ed oggi, a 6 anni di distanza dal debutto, tra i miglior centri del campionato.

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Dall’Africa si è portato dietro pochi ma importanti ricordi: il 9, omaggio al numero che indossava il padre nella carriera in patria ed una Bibbia francese che, in silenzio, sfoglia prima di ogni partita. E’ la sua maniera per rendere grazie a chi ha deciso di farne la linea trasversale di due mondi, Rep. del Congo e NBA, fin lì paralleli.