Chissà se un giorno o l’altro Enes Kanter potrà rivedere la sua Istanbul, e chissà se quel giorno, mai ci dovesse essere, potrà rivederla come l’aveva lasciata, con quella ricca identità plurale che sinora l’ha contraddistinta. La Turchia, così come purtroppo molte altre nazioni nel mondo, attraversa un periodo socio-politico difficile, in cui sembra che la sua peculiare diversità culturale rischi di trasformarsi in un sistema monocromatico, minacciando anche i confini, apparentemente inviolabili, dello sport.
La storia del pivot non nasce originalmente in Turchia, ma a Zurigo, Svizzera, dove suo padre si manteneva e al tempo stesso cercava di conseguire la laurea in medicina. Successivamente l’attuale centro degli Oklahoma City Thunder si trasferisce nella terra natia del padre, la Turchia appunto, dove inizia ad approcciarsi al basket proprio nella città di Istanbul, tra le file del Fenerbahçe, squadra a noi oggi nota per annoverare tra le sue file i talenti nostrani di Datome e Melli.
A soli 17 anni Enes Kanter si trasferisce negli Stati Uniti per inseguire il sogno chiamato NBA e nel Draft 2011 (dopo diverse controversie collegiali) viene scelto come terza chiamata assoluta dagli Utah Jazz, nonostante non sia mai sceso in campo in una singola partita collegiale ufficiale (per le già citate controversie appunto).
Il resto è storia recente, sotto gli occhi di tutti, con i Jazz la consacrazione arriva al terzo anno e si ripete all’inizio del quarto. Nonostante tutto, a Utah non credono pienamente in lui e, a stagione in corso, lo cedono agli Oklahoma City Thunder dove, in appena 26 partite, mette in mostra tutta la sua classe offensiva con 18,7 punti, 11,0 rimbalzi (di cui ben 5,0 offensivi) di media con il 56,6% dal campo in soli 31,1 minuti di impiego. Questi numeri, neanche a dirlo, gli valgono la conferma con un quadriennale da 70 milioni di dollari.
Siamo nella stagione 2015/2016, neanche il tempo del rinnovo che coach Donovan (subentrato a Scott Brooks) gli ritaglia un ruolo come sesto uomo dalla panchina. Enes Kanter ha però la giusta umiltà e le giuste motivazioni per non abbattersi facendosi trovare pronto e accettando la decisione del nuovo coach. Ogni volta che entra in campo rappresenta l’apoteosi offensiva di un lungo, e a vederlo così grande e grosso (111 kg distribuiti su 211 cm) quasi non ci si crede quando muove i piedi in post come fosse un ballerino o quando, in un modo o nell’altro, riesce a trovare il fondo del secchiello con le sue innate doti offensive.
Difensivamente parlando ha ancora tanto da imparare, tanto che è spesso il bersaglio preferito degli attacchi avversari, ma complessivamente l’apporto che dà alla sua squadra è più che positivo. Nella scorsa stagione le sue statistiche sono state eccelse, ed hanno recitato (con proporzione a 36,0 minuti di impiego) 24,3 punti, 11,3 rimbalzi (di cui 4,6 offensivi) di media con il 54,5% dal campo. Il suo Player Efficiency Rating (PER) è stato il diciannovesimo assoluto della lega, con un valore pari a 23,74, come fosse un “All-Star” affermato (non dimentichiamoci che ha solo 25 anni e per un lungo, nel vero senso del termine, è davvero poco).
In un’altra qualsiasi normale situazione, attorno al giocatore turco non ci sarebbe stata che enfasi in attesa della nuova stagione NBA, eppure sappiamo benissimo che non ci può essere solo enfasi, perché proprio la sua amata Turchia, quella per cui è anche più volte sceso in campo a difenderne i colori (soprattutto nelle squadre giovanili), stava per toglierci la bellezza di vedere su un parquet di basket questo immenso talento, anzi, se tuttora ne avesse la possibilità, lo rimuoverebbe definitivamente dal basket giocato.
Il motivo di tutto ciò? Un mandato d’arresto per appartenenza ad un gruppo che ad oggi in Turchia viene definito “terroristico”, quello vicino al politologo Fethullah Gülen, tuttora residente negli Stati Uniti nonostante le diverse richieste di estradizione del governo turco. La storia è recente e nota a molti: di rientro da un viaggio in Indonesia, mentre si trovava in Romania per effettuare uno scalo, Enes Kanter si vede non riconosciuto dalle autorità rumene il suo passaporto turco, e rimane così bloccato in aeroporto, esatto, bloccato! Sono momenti terribili ed interminabili che si risolvono solo dopo molte ore con il rilascio del giocatore verso gli Stati Uniti grazie al possesso della sua green card (autorizzazione rilasciata dalle autorità degli Stati Uniti d’America che consente ad uno straniero di risiedere sul suolo degli U.S.A. per un periodo di tempo illimitato).
Non possiamo sapere di preciso se la verità stia da una parte o dall’altra, quello che possiamo sapere è che in questi istanti il padre di Enes Kanter si trova, per le stesse accuse nei confronti del figlio (o forse proprio a causa di quelle stesse accuse) agli arresti domiciliari, come, se non peggio, altre centinaia di docenti universitari, magistrati, forze dell’ordine o, semplicemente, oppositori politici.
Ogni volta che il mondo va alla deriva, e prova a portare con se un pezzetto del mondo apparentemente invalicabile dello sport, è lecito non abbattersi e sperare che in un domani non troppo lontano ci si svegli e ci si trovi in un’altra qualsiasi normale situazione, dove si può fare il tifo per il proprio giocatore NBA preferito e dove si può tranquillamente sostenere anche un giovane centro turco, nato in Svizzera, e cestisticamente cresciuto negli Stati Uniti d’America.