Andre Tyler, o più semplicemente Andre, Iguodala nasce a Springfield 31 anni fa, da madre americana con origini africane e padre nigeriano. Iscrittosi alla Lanpier High School, porta la squadra della sua città a giocarsi la finale dello Stato (poi persa), e si classifica al secondo posto nell’Illinois Mr. Basketball award (il premio al miglior giovane dello Stato) dietro a Dee Brown, visto anche alle nostre latitudini. Al college, poi, gioca con gli Arizona Wildcats per soli due anni, prima di rendersi eleggibile al draft. Da qui, inizia il nostro racconto.

24 giugno 2004 al Madison Square Garden. Alla nona scelta, i Philadelphia Sixers di Allen Iverson scelgono Andre Iguodala (alla numero otto, tanto per dire, i Raptors puntano sul centro brasiliano Rafael Araujo, che magari i più giovani neanche ricordano), e vari giornalisti criticano la scelta: adducendo come motivazione le basse percentuali al tiro dalla lunga distanza, concludono che non sia in grado di giocare tra i pro.

Nel suo primo anno, parte subito in quintetto, non saltando neanche una partita, ed è anche l’unico rookie a registrare una tripla-doppia quell’anno, a conferma delle sue caratteristiche da all-around player. Con la partenza di Iverson, le performance della squadra inevitabilmente crollano e molte colpe sono scaricate su Iguodala, reo – secondo i fan – di non riuscire mai a prendere in mano la squadra durante una partita e portarla alla vittoria.

Così, nell’estate del 2012, nel mezzo di una trade a tre squadre, finisce a Denver, alla corte di coach George Karl. Nonostante una stagione positiva per Iggy, i Nuggets escono al primo turno dei Playoffs, eliminati dai Warriors di Steph Curry. I più attenti ricorderanno il piano partita di quei Nuggets: difendere su Curry, usando anche le maniere forti. Alla fine della serie, Iguodala si scusa con il coach dei WarriorsMark Jackson, per l’eccessiva fisicità nei confronti del suo giocatore, mandando così su tutte le furie parte della tifoseria dei Nuggets. Ma il tempo, dicono, è galantuomo…

Dopo circa un mese, infatti, Iguodala firma un quadriennale da 48 milioni di dollari proprio con i Warriors. Offerte economicamente più vantaggiose non mancano (vedi Sacramento o la stessa Denver), ma Iggy decide di firmare a Golden State, sia per la stima nutrita nei confronti degli Splash BrothersCurry e Thompson – e di coach Mark Jackson, sia perché pensa di potersi adattare al meglio al loro gioco (il tempo gli darà ragione). I Warriors, d’altro canto, sacrificano due scelte al primo turno, si liberano di qualche contratto pesante e, alla fine di una trade con Jazz e Nuggets, accolgono nel roster il nativo di Springfield. Il primo anno, agli ordini di coach Jackson, è abbastanza positivo. La svolta, però, arriva con Steve Kerr.

Iguodala

La prima mossa del neo-coach, infatti, è quella di far partire Iggy dalla panchina, per la prima volta in tutta la sua carriera. Sarebbe partito nello starting five di qualunque altra squadra, ma accetta la scelta del coach, mettendo da parte il suo ego. Questo assetto è stato il tratto fondamentale dei Warriors per tutta la stagione, Playoffs annessi, fino a Gara-4 delle Finals

I Warriors sono sotto 2-1 con i Cavaliers, e Steve Kerr decide di giocare con un quintetto più basso, la migliore decisione di tutta la serie. Così, Iguodala torna in quintetto al posto di Andrew Bogut (il centro titolare diventa Draymond Green) e nel suo primo match da titolare segna 22 punti, raccogliendo anche 8 rimbalzi. Da quella partita, i Warriors non hanno perso più: tre vittorie consecutive, serie sul 4-2 e anello conquistato. La presenza di Iggy è stata fondamentale in attacco e, soprattutto, in difesa: LeBron James ha avuto una serie a dir poco disumana, segnando oltre 36 punti di media, ma tirando con il 39.8% dal campo, a differenza del 48.8% con cui ha chiuso la stagione.

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Il titolo di MVP è un elogio al sacrificio: il sacrificio di un giocatore perennemente sottovalutato (piccola curiosità: negli States, la sua vittoria del titolo di MVP era quotata 125 a 1), spesso criticato anche dai suoi stessi tifosi. Tutto il duro lavoro, tutte le esperienze passate, lo hanno portato a questo meritatissimo premio. In una delle prime interviste da MVP, non si è detto sorpreso perché è sicuro di sé e delle sue armi, nonostante sia spesso troppo duro con se stesso, ma anche lui avrebbe scommesso su Steph Curry (che, tuttavia, non ha raccolto neanche un voto come MVP).

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La conclusione è affidata alle parole di coach Kerr:

[…] è giusto che il premio vada ad Andre, perché ha sacrificato il suo ruolo di starter dalla prima partita della stagione. Non era semplice, non era mai partito dalla panchina in tutta la sua carriera. Sentire un All-Star e campione olimpico che dice ‘Ok, parto dalla panchina’ ha dato il via a tutto quello che siamo stati in grado di raggiungere. Si chiude il cerchio.