Stagione NBA 2004-2005, dopo ben sei annate passate a Dallas, Steve Nash ritorna in quel di Phoenix, dove ad allenarlo lo aspetta un coach italoamericano, di nome Mike D’Antoni, con delle idee riguardo al basket alquanto bizzarre. Steve Nash ha da poco superato la trentina ed è visto, dati alla mano, come un giocatore in fase calante. Al buon Mike però poco importa di cosa pensano gli altri del suo playmaker e, al primo allenamento, capisce subito che se quel ragazzo bianco dai capelli rivedibili seguirà le sue idee, allora farà la fortuna di tutte le parti in gioco.
Steve Nash quelle idee di gioco non solo le seguirà alla lettera, ma le farà completamente sue, tanto che proprio in quella stagione 2004-2005 al play canadese verrà riconosciuto il premio di Most Valuable Player della Lega, mentre all’ex giocatore e allenatore dell’Olimpia Milano verrà riconosciuto il premio di Coach of the Year. I Phoenix Suns chiuderanno la stagione regolare al primo posto, con lo strabiliante record di 62 partite vinte e sole 20 perse, salvo poi veder fermata la loro sete di vittoria in Finale di Conference per mano dei futuri campioni NBA: i San Antonio Spurs.
Tra i tanti riconoscimenti di quella stagione occorre anche ricordare l’inclusione nel secondo e terzo quintetto NBA rispettivamente di Amar’e Stoudemire e Shawn Marion, a riprova del fatto che coach D’Antoni riuscì a costruire una giostra formata da tasselli perfettamente in equilibrio tra loro.
Altro giro, altro regalo: nella stagione 2005-2006, nonostante l’infortunio di Amar’e Stoudemire, i Phoenix Suns vincono ben 54 partite. Steve Nash e Shawn Marion bissano rispettivamente il premio di MVP e l’inclusione nel terzo quintetto NBA mentre a Boris Diaw viene assegnato il premio di Most Improved Player. Anche in questo caso però, la corsa nei Playoffs si conclude anticipatamente in Finale di Conference, contro i Dallas Mavericks (in seguito vicecampioni NBA a discapito dei Miami Heat).
Le successive stagioni, complice anche una buona dose di sfortuna, mostreranno sempre degli ostacoli troppo ardui da poter essere superati, impedendo così ai Suns di coach D’Antoni e Steve Nash di conquistare il tanto ambito titolo NBA. Poco importa, perché per stessa ammissione degli odierni campioni, l’impronta lasciata da quei Phoenix Suns è oggi ben visibile nelle idee e negli schemi che muovono i Golden State Warriors di coach Steve Kerr, oltre che, ovviamente, negli attuali Houston Rockets di coach Mike D’Antoni.
Ad oggi, come è noto, la franchigia texana si è da poco rinforzata con l’approdo di Chris Paul, candidandosi come una delle principali contender per il titolo NBA, grazie soprattutto ad uno dei più forti backcourt dell’intera lega, quello formato, per l’appunto, dall’ex playmaker dei Los Angeles Clippers e dall’idolo del Toyota Center, sua divinità il Barba James Harden.
Nonostante l’entusiasmo generale però, tra i molti addetti ai lavori non mancano gli scetticismi su quello che realmente potranno combinare i Rockets nel corso della prossima stagione. I dubbi principali ricadono soprattutto sulla chimica di gioco che si creerà tra le due All Star, abituate da sempre, rigorosamente palla in mano, a fare il bello e il brutto tempo delle loro squadre.
Purtroppo per i Rockets e per Mike D’Antoni, i numeri della passata stagione non mentono: sia CP3 che The Beard sono due campioni abituati a caricarsi ogni responsabilità sulle proprie spalle, tanto da aver prodotto i loro rispettivi 18.1 e 29.1 punti di media quasi esclusivamente in situazioni di isolamento o di pick&roll iniziati e conclusi in prima persona. Basta pensare che l’ex playmaker dei Clippers nel tiro da 2 punti è andato a segno nell’87,6% dei casi senza bisogno di alcuna assistenza da parte dei compagni di squadra. Per James Harden, invece, questa stessa percentuale è stata addirittura pari al 90,5%.
Bisogna però valutare se queste tendenze (o attitudini se preferite) siano realmente deleterie in una squadra che vuole ambire ad essere vincente. La risposta a questa domanda non è necessariamente una questione binaria (SI o NO), ma è, per meglio dire, una questione più complessa, dipendente soprattutto dal contesto di gioco che si sta analizzando. Ma questa è soltanto una teoria, e per provare una teoria, come è noto, occorrono delle prove, che non sempre sono così facili da reperire.
D’altronde dove abbiamo già visto nel passato due giocatori, con la tendenza a tenere molto la palla in mano, ottenere comunque ottimi risultati? Beh, a pensarci bene li abbiamo visti proprio in quei Phoenix Suns della stagione 2004/2005 e rispondevano al nome di Steve Nash (…neanche a dirlo!) e Joe Johnson. Pensate che in quella celebre stagione Steve Nash chiuse con appena il 10.1% dei suoi tiri segnati da 2 punti frutto dell’assistenza di un compagno, mentre per Joe Johnson, nonostante la presenza in squadra dello stesso Nash, il medesimo dato si fermò ad un misero 27.8%.
Se state pensando che la stagione di Big Shot Joe fu fatta di rare apparizioni (d’altronde all’epoca aveva solamente 23 anni), allora occorre ricordare che coach Mike D’Antoni utilizzò l’attuale giocatore degli Utah Jazz per ben 39.5 minuti di media a partita, addirittura di più di quanto concesso allo stesso Steve Nash (34.3 minuti di media). Per avere una panoramica ancora più completa di questo duo occorre inoltre guardare i loro macro numeri, che nella stagione in questione recitarono per Steve Nash 15.5 punti, 11.5 assist, 3.3 rimbalzi, 1.0 palle rubate, con il 50.2% dal campo, il 43.1% dalla lunga distanza e l’88.7% dalla lunetta, e per Joe Johnson 17.1 punti, 3.5 assist, 5.1 rimbalzi, 1.0 palle rubate, con il 46.1% dal campo, il 47.8% dalla lunga distanza e il 75.0% dalla lunetta.
In quel contesto, ovvero con Steve Nash a monopolizzare l’andamento del gioco dei Suns, i numeri e le tendenze di Johnson non devono passare inosservati e soprattutto, non bisogna sottovalutare la loro giusta collocazione, ovvero quella di un contesto da ben 60 vittorie stagionali.
Si badi bene, i paragoni sono interessanti, ma spesso lasciano il tempo che trovano, ad esempio quel Joe Johnson può essere solo in minima parte accostato all’attuale James Harden, sia per status che per attitudini. Basti pensare che quell’acerbo Big Shot Joe aveva la giusta umiltà nel lasciarsi guidare dalla presenza in campo di Nash, soprattutto facendosi trovare spesso e volentieri pronto a colpire dalla linea dei 3 punti (in special modo dagli angoli, massimizzando inoltre quelle occasioni con delle percentuali al tiro quasi irreali).
In questo il James Harden di oggi (giocatore completamente diverso da quello visto ad Oklahoma City) è molto distante da quel Joe Johnson. E così potete stare pur certi che il successo dei Rockets passerà anche dalla disponibilità del Barba a giocare lontano dalla palla, in attesa che Chris Paul materializzi per lui i più classici dei cioccolatini da scartare.
Ad ogni modo (al netto della disponibilità dei singoli giocatori) non dobbiamo mai dimenticare il contesto, perché il segreto di quei Suns risiedeva proprio nel loro modus operandi, quello del fast break, del run&gun, del 7 seconds or less e della transition. Mike D’Antoni è consapevole che quello stesso modus operandi, se propriamente scolpito nei suoi Houston Rockets, farà le fortune di tutte le parti in gioco, in primis di Chris Paul e di James Harden. Chissà che non ne nasca un’altra storia da raccontare, d’altronde … Chirs Paul ha da poco superato la trentina ed è visto, dati alla mano, come un giocatore in fase calante. Al buon Mike però poco importa di cosa pensano gli altri del suo playmaker e, al primo allenamento, capisce subito che se quel ragazzo …