San Antonio risuona delle note dolorose e malinconiche del suo ultimo tango.
Gara-4 è ormai alle spalle, le Finals alle porte.
San Antonio non ci sarà. Forse era già scritto, ma non importa. “Combattere” è parola d’ordine in Texas. “Correre” un monito irrinunciabile. E al suo Vangelo, la corazzata di coach Popovich non è mai venuta meno. Il finale è stato amaro, la sconfitta ancora brucia. E non potrebbe essere altrimenti. Ma c’è qualcosa di più.
Manu Ginobili si volta, il suo pubblico lo chiama. Sa che è finita, lo sanno anche loro. Uno sguardo d’intesa, un cenno d’assenso: lo staff tecnico è pronto a farlo rientrare. Sorride, declina l’offerta. Non è così che funziona. Chissà se fa male. Chissà se è un addio. Finisce tutto così: nella dignità di un rifiuto. Nel silenzio di uno sguardo.
San Antonio risuona delle note dolorose e malinconiche del suo ultimo tango.
San Antonio che è parte del ventre sconquassato e multiforme dell’America. San Antonio che è la stella solitaria che sventola sulla bandiera del Texas, con i suoi cow-boy, i suoi rodei e i suoi giri a poker. Il Texas, terra di rocce inesplorate e pianure sterminate. Il Texas che è uno stato d’animo e un’ossessione. Il Texas che forse somiglia a lei, alla sua Argentina.
Manu Ginobili si volta, il suo pubblico lo chiama. Niente è mai stato così chiaro. I solchi che il tempo ha scavato sul volto appaiono improvvisamente profondi. Maledetto. Maledetto, maledettissimo tempo! Non c’è soluzione, Manu lo sa. Sorride, declina l’offerta. Chi ha imparato a conoscerlo sa che la tentazione è forte, ma l’orgoglio di più.
Manu Ginobili, el gaucho de la Pampa. L’incarnazione dell’uomo argentino libero e fiero che percorre il Paese a cavallo, che mescola il dramma all’epopea. Manu Ginobili, che è tecnica e cuore, spirito e mentalità. Competizione sfrenata e mai scorretta. Fatti inequivocabili e parole misurate. Una magia targata Spurs.
Se il tempo potesse fermarsi alla stoppata rifilata a James Harden in gara-5 e al tunnel che ha umiliato David West nello scontro con i guerrieri della Baia, l’ultimo rifiuto non avrebbe il sapore malinconico dell’addio. Se il tempo potesse fermarsi all’atto finale di questa stagione, non ci sarebbe motivo di lasciarsi il parquet alle spalle. Ma nell’ultimo tango, le prodezze non bastano. Nel’ultimo tango c’è stato bisogno di fare i conti con la panchina. Tanta panchina. Con i minuti contati. E poi con la stanchezza. Tanta anche quella. Con i canestri mancati e i punti non segnati. “Manu Ginobili che stenta a salire in cattedra”. Con la pressione che grava sul campione quando il suo nome è ormai leggenda.
San Antonio risuona delle note dolorose e malinconiche del suo ultimo tango.
Manu Ginobili si volta, il suo pubblico lo chiama. “Manu, Manu, Manu”: la fierezza del campione si scioglie nel calore di un pubblico che mai dimenticherà. Ed ecco che in panchina non c’è più il numero 20 dei San Antonio Spurs, non c’è più l’autore di 15 punti in quell’ultima, estenuante gara con i Warriors. C’è solo lui, Manu. La favola di un Paese lontano che valica i confini e oltrepassa i continenti, il talento e la dedizione del campione, l’orgoglio e la fantasia della leggenda.
Un oro olimpico, quattro titoli NBA e ogni altro riconoscimento non racconteranno mai abbastanza. Manu Ginobili, el gaucho libero e fiero in terra lontana, si volta. Il suo pubblico lo chiama. Se le ultime note del tango stiano suonando anche per lui, non ci è dato saperlo.
Sorride, declina l’offerta. Tutti lo guardano. Tutti capiscono che finale diverso non avrebbe mai potuto esserci. Perché quello lì è Manu Ginobili. Uno stato d’animo e un’ossessione. Come il Texas. Come la sua Argentina. Come il basket. Che ancora risuona dell’eco doloroso e malinconico di quello che potrebbe essere l’ultimo tango.