“Non date tutto per scontato. Quella che vi ritrovate tra le mani è un’opportunità che non sono in molti ad avere. Sfruttatela! E impegnatevi nello studio! Quando siete in campo, ascoltate e imparate da chi ne sa più di voi. E soprattutto, divertitevi!”
I pensieri si susseguono al ritmo incalzante del palleggio. Uno contro uno, l’avversario non ha occhi che per te. Il monito che ronza nella sua testa è lo stesso che sta martellando la tua: vincere. È la dura legge del playground, è la regola prima della sopravvivenza: dentro o fuori. Tu o io. Nessuna possibilità, zero alternative: vincere, soltanto vincere. Perché il parquet spesso non perdona. E la vita neanche.
James Harden lo sa. Se tutto questo non gli fosse stato chiaro da subito, oggi non sarebbe in corsa per il titolo di MVP. Harden non può dimenticarlo. Non può dimenticare tutto quello che c’è stato prima del college, prima del draft, prima dei Thunder, prima degli All-Star Game, prima dei premi e dei riconoscimenti. Prima di Houston.
No, Harden non può farlo. Non può cancellare dagli occhi e dai ricordi il ragazzino con un sogno nella testa e una palla tra le mani che i primi raggi di sole buttavano giù dal letto e i viaggi infiniti in autobus conducevano in palestra prima che il trillo della campana decretasse l’inizio delle lezioni. Lo sport gli ha dato tutto quando tutto era ancora un miraggio. E questo no, non si dimentica. Specie se il destino ti ha confinato a Compton.
Già, Compton. Compton che è inferno e paradiso. Compton che è casa e prigione. Compton che è speranza e delusione. Compton con le sue ombre, con la sua violenza, con quel tasso di criminalità che è fra i più alti del Paese. Compton che si tinge di nero e di rosso. Compton che, per questo, ha il sapore irrinunciabile della sfida.
“Era un posto decisamente pericoloso, come tanti altri in giro per il mondo. Ma quanto più ti soffermi su ciò che di positivo ha da offrire, quanto più cerchi di tenerti lontano dalla strada, tanto più avrai da guadagnarne.”
È per questo che oggi James Harden, che del sogno che si annida fra le strade buie e dimenticate dell’America è immagine e incarnazione, vuole dare agli altri una mano. La stessa che, in passato, nessuno ha offerto al ragazzino ambizioso e determinato che ancora si nasconde sotto la barba che oggi gli copre il viso.
Appena può, James Harden scappa a Phoenix. E da Phoenix di nuovo a Houston. Texas e Arizona: è qui che la stella dei Rockets ha deciso di dar vita all’ennesimo progetto. Un concentrato di sport e di vita pensato per chi ha la fortuna di avere un sogno, ma poche speranze di realizzarlo, che si avvale della collaborazione di professionisti che con lo stesso Harden hanno condiviso il parquet ai tempi del college o del liceo. Ai ragazzini che fanno parte del Team Harden Program, James cerca di insegnare questo: fare della propria vita il capolavoro uscito dal pennello del sudore e della determinazione.
“So bene quello che questi ragazzi sono costretti ad affrontare tutti i giorni a Houston e in Arizona. Cerco di dar loro qualcosa per tenersi vivi, per aiutarli a stare lontano da tutto ciò che di negativo li circonda. Un’opportunità che può senz’altro aiutare le famiglie nel lungo percorso che hanno da affrontare. È per questo che cerco di passare con loro quanto più tempo possibile, specialmente nei giorni di riposo.”
Già, Harden sa anche questo: sa bene cosa significhi poter contare su di un sostegno irrinunciabile lungo la corsa. A lui, fortunatamente, il destino l’ha dato in dotazione. Sua madre, Monja Willis, è sempre stata convinta che non ci sarebbero state opportunità, per i suoi figli, se le fondamenta delle mura domestiche non fossero state ben salde: “Ero solita ripetere ai miei ragazzi che, se avessero combinato qualche guaio fuori di casa e la polizia fosse venuta a bussare alla mia porta, avrei fatto di tutto per essere sicura che si trattasse realmente di loro, perché, in tal caso, avremmo avuto qualche problema. Sono una madre, non un’amica. Preferisco che siano i miei figli a parlarmi dei loro problemi, non che me ne giunga voce da qualcun altro in strada. È quel che si definisce gioco di squadra.”
Gioco di squadra. Niente di più azzeccato. Monja l’ha sempre saputo. A portare i suoi figli in una palestra, per la prima volta, è stata proprio lei. Li ha accompagnati oltre la soglia, mano nella mano, confidando nel fatto che sarebbe sempre stato così. Anche nella vita.
“A dirla tutta, James ha cominciato con il baseball. Quando gli ho fatto mettere piede per la prima volta su un campo da basket, era ancora troppo piccolo per capire i fondamentali del gioco. Era già in grado di tirare, ma con i fondamentali non sapeva proprio cosa fare. Perciò non voleva giocare. Semplicemente ‘Mamma, non voglio farlo’. Va bene, gli ho detto. Non sei ancora pronto. E così l’ho lasciato sui campi da baseball per circa tre anni. Il fratello, invece, giocava a football. Facendo in modo che la loro vita ruotasse intorno allo sport, ho tenuto i miei figli lontano dalla criminalità. Tutti possono provarci e capire quanto grandi siano i vantaggi. È per questo che ho puntato tutto sullo sport. E i miei figli hanno finito per amarlo”.
“Era mia madre ad accompagnarmi agli allenamenti dopo la scuola”, afferma James, tutti i giorni. Avevo sempre qualcosa da fare, non avevo neppure un secondo per sedermi da qualche parte e pensare ad altro. Dopo il baseball è stata la volta del basket. E da allora non ho più smesso”
Ai tempi del liceo, James ha scritto un appunto per Monja. Poche parole scribacchiate su un pezzo di carta: “Could U wake up at 7:00. And could U leave me a couple of dollars – James Harden. P.S Keep this paper. Imma be a star”. James aveva ragione. Oggi il suo nome è una sentenza. E Monja quel pezzo di carta lo conserva ancora. È una madre orgogliosa che continua ad avere un ruolo irrinunciabile. Senza di lei, nulla avrebbe preso forma. Compreso il progetto AAU. E mentre la corsa al titolo di MVP entra nel vivo, Harden sembra avere qualcosa di più importante da dire:
“So bene che ci sono tantissimi ragazzi, lì fuori, con un sogno in tasca. Con l’obiettivo di giocare a basket e di provvedere, in qualche modo, alle loro famiglie. Non che debbano necessariamente giocare in NBA. C’è anche la possibilità di giocare al di là dell’oceano. Voglio solo assicurarmi che, un giorno, siano in grado di ripagare i loro familiari. Sto offrendo loro un’opportunità. E in tanti stanno avendo successo. Sono orgoglioso di loro”.